Cronache da Librino

Condivido con voi qualche riflessione frutto dell’ultima esperienza di ricerca svolta nel quartiere Librino a Catania.

Entri a Librino e ti chiedi dov’è che si trova la famigerata periferia di cui parlano giornali e ricerche universitari. Attorno vedi tanti palazzoni alti e stretti, sono le case di edilizia popolare, insieme a case più basse, appartenenti alle cooperative. Il degrado urlato e gridato che ti trovi quando entri allo Zen di Palermo non lo trovi quando vai a Librino. Di certo non si tratta di un posto particolarmente bello, ma non è molto diverso da tante parti nuove di città costruite senza particolare criterio.

00153_luca-raciti-480x332

Le interviste con assistenti sociali dell’ussm e uepe aiutano a fare chiarezza a proposito. Mi raccontano che si tratta di alcune strade, viale Moncada e via Bummacaro, quelle in cui si concentrano le situazioni di grave disagio sociale. L’organizzazione urbanistica non aiuta a identificare i luoghi. I viali infatti cambiano nome a seconda del senso di marcia e un singolo numero indica un complesso di palazzi. Come nel caso di viale Moncada 16.

E’ proprio lì che Grazia mi propone di seguirla per una visita domiciliare. Dice che per capire certe situazioni devo vederle. Accetto senza farmelo ripetere due volte. Insieme ad un’assistente sociale del Comune e con l’autista, figura maschile che dovrebbe dare sicurezza, saliamo al settimo piano di viale Moncada 16. Come già preannunciato non ci sono citofoni, appositamente rimossi, o ascensori funzionanti. All’ingresso domina la monnezza e le mosche che escono da porte semiaperte che nascondono non si sa che cosa. Saliamo a piedi, quasi fossero gironi dell’inferno i cui numeri sono scritti a penna sui muri scrostati.

Arriviamo a casa di Christian, 14 anni, autista di una rapina avvenuta circa 2 mesi fa con altri 3 ragazzini di cui uno è morto e gli altri 2 in carcere. Ci apre la sorella più grande che lo chiama mentre sparecchia la tavola. Christian, nervoso e gridando verso la sorella, si siede alla tavola che la sorella si affretta a sparecchiare. Risponde a mala pena alle domande dell’assistente sociale. Per l’imbarazzo della situazione abbasso lo sguardo verso il tavolo dove ora è rimasto un oggetto che a prima vista era passato inosservato: una pistola.

L’assistente sociale la prende in mano a mo’ di sfida e facendola roteare con marcato accento catanese dice: “e questa che è? Un giocattolo?”. Continuano le domande a cui Ivan risponde a fatica. E’ il momento di lasciare loro maggiore privacy e io e l’autista scendiamo giù per tornare all’auto. Di fronte a noi un gruppetto di 4 ragazzi apparentemente intenti a gozzovigliare ma con un occhio buttato verso di noi. Dopo un po’ si affaccia Ivan dalla finestra in alto che ci avverte che le colleghe stanno scendendo. Fa poi un cenno al gruppetto dei quattro, un lasciapassare nei nostri confronti.

Tornando in auto verso il centro dei servizi territoriali mi rimane la sensazione che il palazzo, anzi l’insieme di palazzi all’interno del medesimo isolato sia una fortezza inespugnabile (non a caso l’ultima operazione antidroga è stata denominata “Fort Apache”). Controllata dal basso e dall’alto è impossibile accedervi senza che gli abitanti siano consenzienti. Volutamente trasandata al di fuori, in modo da rendere gli appartamenti difficilmente identificabili e raggiungibili dagli esterni. Uno stato di cose chiaramente funzionale all’autosegregazione necessaria per svolgere attività illecite etc. All’interno oltre a case malandate si trovano anche abitazioni super curate. Le assistenti sociali mi raccontano che spesso le case delle famiglie mafiose hanno tutti i tipi di comfort e arredamenti anche molto costosi. Ma la tendenza anche in questo caso è quella di nascondere il più possibile questo benessere a meno che il rapporto di confidenza con chi visita la famiglia non sia tale da potere permettere l’accesso all’intimità della casa. E’ così che alla prima visita le assistenti sociali visitano appartamenti di una stanza, che la volta dopo diventano due, e a seguire tre e quattro. Un sistema complesso di soglie (nella casa) e di limiti (rispetto al palazzo) tra cui è difficile muoversi se non grazie alla costruzione di una relazione di fiducia e di empatia profonda. E’ per questo che non tutti hanno lo stesso grado di accesso a questi spazi: le assistenti sociali dell’Ussm sono quelle che riescono a muoversi più facilmente, il loro arrivo viene annunciato con un fischio, quelle dell’Uepe o del comune sono percepite come più pericolose, il loro arrivo viene comunicato con due fischi. I limiti e le soglie che regolano la vita di questa parte di quartiere non sono solo fisici, ma anche simbolici. Un limite netto nella vita dei ragazzi ad esempio è quello dei 18 anni, dopo i quali si entra nella fase adulta della vita in cui è necessario contribuire al mantenimento della famiglia. Le assistenti sociali che prima di questa età hanno il consenso da parte della famiglia nel coinvolgere il ragazzo, assisterlo e seguirlo, superato questo momento perdono qualsiasi possibilità di controllo sulla condizione del ragazzo. Questo almeno per quanto riguarda i ragazzi “strutturati”, ovvero coloro che appartengono a famiglie di stampo mafioso e si muovono dunque all’interno di una cultura “parallela” rispetto a quella “ufficiale” propria delle persone comuni. Rispetto al sistema culturale delle famiglie mafiose le assistenti sociali dell’ussm mostrano un atteggiamento di rispetto. Per loro si tratta a pieno titolo di un sistema di norme alle quali le famiglie, come avviene in qualsiasi sistema di regole, cercano di aderire il più possibile. Questo riconoscimento è reciproco per cui anche le madri dei ragazzi presi in carico mostrano rispetto per un sistema altro dal loro che non giustificano ma comprendono. Il rapporto con le assistenti sociali è fatto così di un continuo gioco di negoziazione tra soglie di accesso e relazione tra due mondi culturali estremamente diversi. Tra questi sono costretti a muoversi anche i ragazzi in carico ai servizi. Il percorso di rieducazione prevede una progressiva presa di distanza dal modello culturale di appartenenza e il momento della fine del percorso educativo è cruciale da questo punto di vista. Ritornare a casa significa rientrare a far parte di quel mondo. Resistere a questo processo è quasi impossibile. In alcuni casi l’alternativa è il suicidio.

Diverso è il caso dei ragazzi “non strutturati”, cioè non appartenenti a famiglie mafiose ma caduti in attività illegali. In questo caso il lavoro svolto dalle assistenti sociali è leggermente diverso e per certi versi più facile: il periodo in carcere spesso aiuta questi ragazzi ad allontanarsi da brutte abitudini e ritornare alla vita normale.

Operazione Fort Apache a Librino: clicca qui