É possibile pensare una comunicazione diversa durante la pandemia?

Palermo, inizio novembre. Le giornate sono ancora calde e sole, mare e natura più che godibili. Inoltre sembrano le uniche cose in grado di rasserenare un po’ in questo clima di ansia crescente.

Ecco perché un po’ tutti lo scorso fine settimana abbiamo avuto l’idea di fare una passeggiata lungo la costa cittadina dal momento che se vuoi incontrare un amico è meglio farlo all’aperto che al chiuso, e fuori città, nella tua casa di campagna dove hai tanto spazio a disposizione, non ci puoi più andare.

Non c’è dunque da stupirsi se tutta la popolazione si è riversata verso il mare. La gente era veramente tanta ed è subito scattata l’ordinanza. Niente più spiagge questo fine settimana e niente più centro città. Nella zona dalla statua alla stazione non si può più sostare ma solo spostarsi. L’idea implicita che sembra sottostare a questa nuova ordinanza è quella di un popolo sconsiderato che continua a trasgredire le regole nonostante la gravità della situazione. La figura del cittadino, consapevole e responsabile, viene sostituita da quella del ragazzaccio che deve essere continuamente redarguito per evitare che combini ulteriori guai. Eppure tutti stiamo facendo dei grossi sforzi, interrogandoci di continuo su come fare a salvaguardare la salute di tutti pur soddisfacendo quei bisogni minimi di base che non si limitano a mangiare, dormire, lavorare, ma anche a scambiarsi idee, emozioni, affetto, percepire di essere parte di un mondo più ampio, insomma sentirsi vivi nonostante tutto. Perché la pandemia non è più un’emergenza che dura due mesi ma una condizione che si protarrà ancora per molto tempo. La retorica del “eh, ma siamo in emergenza…” vacilla inevitabilmente davanti a una prospettiva temporale di orizzonte ormai più ampio.

Concordiamo dunque con i provvedimenti che cercano di garantire la salute pubblica ma cominciamo a chiederci se non sia arrivato il momento di provare a tirare in causa il cittadino in modo diverso. Magari proponendo spazi di possibilità alternativi e sicuri invece che un semplice elenco di impossibilità, che aumenta il senso di frustrazione di chi comunque fa di tutto per stare dentro le regole. Insomma, oltre a dire cosa non si può fare, perché non suggerire cosa si può invece fare per provare a mantenere comunque un equilibrio, uno stile di vita sostenibile? E’ possibile costruire un patto comunicativo diverso tra amministrazione e cittadino?

Pubblichiamo quindi due mappe:

  1. quella dell’ordinanza che indica gli spazi dove non si può sostare più dalle 16.00 alle 22.00 nei giorni feriali e dalle 5.00 alle 22.00 nei festivi; https://protezionecivile.comune.palermo.it/protezione-civile-covid19-misure-contenimento.php
  2. quella degli spazi verdi disponibili in città, realizzata un po’ di tempo fa da Ciro Spataro. https://umap.openstreetmap.fr/en/map/spazi-verdi-fruibili-a-palermo-italia_14577#13/38.1432/13.3428

La prima indica i divieti, la seconda le possibilità (anche se è nata in un momento storico diverso). Incrociando le due mappe, sottraendo alla seconda gli spazi verdi che ricadono nell’area vietata indicata nella prima, si ottengono spazi di possibilità, luoghi che magari non tutti conoscono. L’invito ad esplorarli può magari rispondere alla necessità di alleggerire i flussi su alcune aree della città (possiamo già predire assembramenti domenicali su Montepellegrino, Capo Gallo e Favorita) e valorizzare aree più periferiche della città. Su queste è ancora possibile sostare per fare due chiacchiere a distanza con un amico, leggere un libro, mangiare un panino, portare i bimbi a giocare. Piccole cose che forse possono aiutarci a vivere meglio in questo periodo.

Basta tenere sempre a mente le regole del gioco: mascherina, distanziamento e uso di gel igenizzante.

L’impegno e la responsabilità dell’estetica (Parte 2)

In questi giorni molti confronti e scontri si sono concentrati sull’estrema importanza (se non supremazia) che secondo Ciop&kaf possiede l’estetica delle immagini proposte da chi dipinge i muri di centri storici e città, di chi con colori e linee cerca di dare forma a particolari ossessioni personali che poi però inevitabilmente si mostrano nello spazio pubblico. È importante che non siano di “facile digestione” , che non ci si arrenda a ipocrite logiche consolatorie. “Ci si deve fare un po’ male a guardarle…”

Le immagini fin troppo inflazionate, la proposta di qualcosa che gli occhi di chi osserva si aspetta di vedere, rischiano di rendere sterili intenti artistici più istintivi, veri, autentici anche se magari meno comprensibili e immediati. Questa suggestione ci ha spinto ad affinare la riflessione su quello che un po’ succede nella nostra città e altrove, dove capita di camminare in quartieri complessi in cui opere commissionate e non hanno più o meno intenzionalmente cercato di riportare attenzione e luce su luoghi dimenticati. E poi ci stiamo chiedendo se le opere di street art debbano o possano davvero avere un intento di riqualificazione…in fondo in questi quartieri dove abbiamo camminato a brillanti colori e disegni sui muri si affiancavano con forza vivida condizioni abitative e di vita difficili, al limite, al confine. E allora se l’arte deve essere solo consolatoria, calata (anzi disegnata) sui muri delle proprie case priva di un progetto attorno più strutturato che sia davvero in relazione con chi vive quei luoghi, rispettandone anche la dignità e condizioni di vita, tutto rischia di diventare un parco giochi dell’arte di strada, forse un po’ inutile, sicuramente poco etico.

E anche se sull’utilità del dipingere in strada Ciop&kaf non lasciano spazio a dubbi affermando che di fatto tutto questo non serve, il loro lavoro non serve, o almeno non ha la funzione e la pretesa di produrre effetti sociali, se non la sola capacità di veicolare in forme e colori la profonda inquietudine e ossessione personale, noi crediamo che le azioni individuali e artistiche di questo tipo non possano non avere effetti sociali. Forse le immagini non avranno la forza di migliorare la vita di chi vive centri storici difficili come Napoli, Taranto e Palermo (sarebbe sbagliato pretenderlo) ma crediamo che progetti artistici compiuti come quelli di Ciop&kaf, continuativi e di autentica empatia con gli abitanti e gli spazi urbani abbiano la capacità di sprigionare energie sociali costruttive, di autoriflessione sulla propria condizione, e che questi effetti ineluttabili superino e siano fuori dal controllo delle intenzioni di un collettivo di artisti che non ha la pretesa di cambiare il mondo, ma forse proprio per questo, potrebbe riuscirci.

Mappe, percorsi, attraversamenti: Cyop&Kaf a Palermo, partendo da Napoli e passando per Taranto. (Parte 1)

Giorni intensi questi ultimi a Palermo in compagnia di Cyop&Kaf. Innanzitutto perché grazie al collettivo abbiamo conosciuto la bella realtà di Le Sciaje di Taranto, con cui abbiamo trovato tanti punti in comune nei modi di proporre e fare vivere la propria città a persone che vengono da fuori.

Poi, il confronto che tanto avevamo cercato c’è stato. Non solo durante la proiezione de “Il segreto” e della presentazione di “Taranto. Un anno in città vecchia” ma anche nel corso di due giorni di chiacchiere, a volte anche accese e taglienti, pasti condivisi e percorsi guidati (emotivi più che fisici) attraverso la città. Silenzi.

Cyop&Kaf (chi lo conosce un minimo lo sa) vuole rimanere al di fuori di etichette preconfezionate, spesso spiattellate con troppa facilità a destra e sinistra. Nel tempo trascorso insieme parole come “street art” e “riqualificazione” hanno quasi costituito dei tabù capaci di agitare gli animi. Per questo confrontarsi su quello che succede in città in questo momento non è stato facile. Eppure ne sentivamo il bisogno. Per il caso e l’entusiasmo con cui ci siamo avvicinate a questi temi, per la bellezza delle relazioni che si sono create, per i progetti che stiamo portando avanti, per il nostro intento fondamentale e sempre presente di osservare e conoscere la città.

Alla fine la magia dello scambio è avvenuta. E possiamo dire di averli salutati al porto (altra piccola magia la nave!) con qualche consapevolezza in più rispetto al loro lavoro e al modo in cui vogliamo portare avanti il nostro.

Ve ne proponiamo qualcuna.

[La potenza del dipingere sui muri della città]

E’ questa un’ipotesi, una pista che inseguiamo da un po’. E’ a partire da questa idea che abbiamo cominciato ad interessarci al dipingere in strada. In questo ci siamo trovati abbastanza d’accordo con Cyop&Kaf. Ma per loro non si tratta di lavoro umanitario, bensì di un’ossessione, che nasce da esigenze del tutto intime e personali oltre che da ricerca artistica. La potenza del segno lasciato sul muro vuole però che succeda sempre qualcosa, che si inciampi in situazioni e persone, scambi e scoperte. Fa parte del gioco. Tutto ciò però nasce non da volontà, ma da pura casualità. In parti di città dominate dal caos e dall’informalità, come i quartieri popolari dei centri storici, è irrealistico pensare di potere apportare un qualche cambiamento progettato e pianificato. Del resto anche i più recenti studi di urbanistica se ne sono resi conto da un po’. Volendo spingere all’estremo il ragionamento non solo è difficile pensare di realizzare in maniera efficace un qualsiasi intervento ma è persino complicato capire “cosa” fare per migliorare certe situazioni. Forse sarebbe necessario un atto di umiltà, fare un passo indietro rispetto all’idea di dovere prendere una posizione rispetto a cosa è meglio o peggio per un determinato luogo. Più onesto è abbandonarsi alla vita (o assenza di vita) di questi luoghi, alla loro profonda bellezza e al contempo durezza. O al massimo si può provare a raccontarli. Facendo grande attenzione però a non tradirli, con visioni stereotipate e abusate.

[L’importanza del racconto]

La cura del racconto è di certo una nuova consapevolezza di cui vogliamo fare tesoro. Non solo il contenuto, ma anche la forma in cui l’esperienza viene restituita ha la sua importanza. Questo perché inciampare in pezzi di città non vuol dire attraversarli in maniera sterile. Non un biglietto gratta e vinci che ti dà emozione nel momento in cui lo gratti e che subito dopo dimentichi. Piuttosto un’esperienza personale, frutto di una relazione intima che si stabilisce coi luoghi e le persone. Si tratta di piccoli “segreti” che di volta in volta si rivelano. Raccontarli male vuol dire tradirli e svilirli. Un po’ di pudore è quello che forse manca spesso nella restituzione di esperienze, azioni, osservazioni all’interno della città. I silenzi e le mancate risposte nei giorni trascorsi con Cyop&Kaf sono quelli che più di tutti ci hanno comunicato la profondità delle esperienze vissute nei Quartieri Spagnoli o nella città vecchia di Taranto.

[La necessità di trovare un nuovo linguaggio]

Per quanto detto sopra diventa fondamentale trovare il giusto modo di raccontare le cose. Il linguaggio per l’appunto. Trovare un nuovo modo di definire o raccontare le esperienze. Liberarsi dalle etichette permette di aprirsi a nuovi modi di comprendere la realtà (del resto è proprio per questo che proponiamo sguardi sempre diversi). La ripetizione e diffusione incondizionata di certi termini crea inevitabilmente un velo opaco sulle cose e sui luoghi che finisce per non comunicare più niente. Libri, articoli e giornali sulle periferie che usano sempre le stesse parole “chiave”: disagio, bisogno, degrado. Parole talmente abusate che finiscono per non dire più nulla, se non comunicare un latente senso di fastidio. Ricordano che le stesse situazioni si tramandano da tempo immemore, senza che nulla sia veramente cambiato.  Succede quando si parla di periferie, ma è un fenomeno che si allarga facilmente ad altri campi (come l’arte, street art, urban art, etc. etc.).

Ovviamente tutto ciò lo si può provare a spiegare, ma molto meglio sarebbe cogliere l’invito a perdersi delle mappe della città vecchia di Taranto o dei Quartieri Spagnoli di Napoli disegnate dal collettivo. Ogni punto sulla mappa è un dipinto, un pretesto. Dunque un invito a vivere la propria personale esperienza della città, in parte condividendo quella di altri. Infine agire, piuttosto che perdersi in inutili chiacchiere.