“Insegnare al principe di Danimarca” di Carla Melazzini è un diario personale che racconta l’esperienza del “Progetto Chance”, un progetto di scuola alternativa per bambini e ragazzi a rischio di dispersione scolastica portato avanti dal 1998 al 2006 e al quale l’autrice ha partecipato come insegnante a Ponticelli, quartiere periferico di Napoli.
Lungo tutto il libro la Melazzini riflette sulla sua esperienza di educatrice all’interno del progetto, raccontando criticità e punti di forza, mettendo a fuoco gli insegnamenti appresi e tentando una riflessione sugli esiti prodotti. Il fine che anima il diario è da un lato metodologico, in quanto mira a restituire alla comunità pensante la ricchezza di esperienza raccolta nel campo della dispersione scolastica, dall’altro è fortemente politico, poiché mira a sfatare tutta una serie di stereotipi relativi alle periferie, alla costruzione dell’idea di periferia e dei suoi problemi svelandone l’ideologia borghese soggiacente.
Il testo tratta in modo non convenzionale e con approccio innovativo le pratiche educative di contrasto della dispersione scolastica. Le osservazioni proposte nascono da un’attività riflessiva fatta sull’esperienza condotta personalmente e non osservata dall’esterno. Per tale ragione la conoscenza proposta è nuova rispetto alla materia trattata, e riesce a decostruire alcuni stereotipi relativi all’intervento sociale nelle periferie adottando più che il punto di vista del ricercatore impegnato nell’indagine etnografica, quello del “professionista riflessivo” che, riflettendo sulla propria esperienza professionale, riesce a produrre nuova conoscenza utile a essere condivisa in una comunità di pratiche. Proprio per questo motivo Melazzini si preoccupa di tirare le somme della propria esperienza , fornendo indicazioni metodologiche specifiche utili agli addetti ai lavori o comunque al lettore interessato al tema. Una delle novità apportate dall’autrice è infatti la definizione dell’incontro antropologico che si instaura tra ragazzo ed educatore, fondato sullo scambio e sull’apprendimento reciproco: alla base del progetto educativo c’è dunque una nuova visione del rapporto studente/insegnante, inteso come relazione di incontro dove secondo “l’assioma della significanza” si deve tornare al grado zero della parola per ristabilirne da capo i significati, voltando pagina rispetto al rumore in cui ragazzi sono immersi. Alla base di questa novità vi è, secondo l’autrice, una teatralità insita nei ragazzi le cui rappresentazioni volontarie o inconsapevoli hanno un grande valore in funzione catartica: molti dei loro comportamenti attuati all’interno degli spazi del progetto vengono interpretati secondo la logica teatrale dove tutto è una continua performance, un rituale. Ciò permette così di scovare i significati profondi delle azioni dei giovani, i loro bisogni e desideri reali.
Il racconto delle vicende e dei momenti più significativi del progetto avviene attraverso un duplice punto di vista: quello dei ragazzi, dei quali vengono raccontati paure e desideri, e quello degli insegnanti, delle difficoltà incontrate quotidianamente nel lavoro coi ragazzi. Vengono ripercorsi gli sforzi di questi ultimi nell’adeguarsi e trovare soluzioni sempre più efficaci ai problemi e questioni di volta in volta emergenti. Vengono così scanditi i momenti di blocco, di crisi, ma anche di successo e di acquisizione di consapevolezza rispetto alle vicende vissute, come ad esempio la presa di coscienza che non tutti i problemi sono risolvibili, che molto dipende dal contesto. Si arriva alla consapevolezza che alcuni casi sono affrontabili solo se il cambiamento è “psichicamente sostenibile”. Nella seconda parte del libro vengono proposte invece riflessioni più generali sulle modalità di organizzazione e radicamento della camorra nei quartieri e nelle vite dei ragazzi, sulle modalità di nascita delle periferie e della loro permanenza del tempo, il tutto attraverso uno sviluppo non propriamente organico ma la cui coerenza fa riferimento alla cornice generale del testo che ha come oggetto la restituzione dell’esperienza.
Dal punto di vista etnografico vi è poi da parte dell’autrice una nuova consapevolezza su come il miglioramento della propria condizione e così anche la voglia di conoscere e coltivare la propria cultura personale possa variare notevolmente a seconda delle classi sociali di appartenenza. Così mentre nei ceti piccolo borghesi ai figli viene trasmessa la necessità di raggiungere traguardi più alti di quanto fatto dai genitori, nel classe del sottoproletariato invece ci si accontenta dei guadagni secondari, in quanto manca la cultura del migliorare la propria condizione. Tale consapevolezza si sposa all’interno del libro con l’intento di critica dell’istituzione scolastica che a mio avviso costituisce una riflessione fondamentale per ripensare il problema della dispersione scolastica nei quartieri periferici. La scuola viene profondamente criticata sia nell’impostazione di fondo che in aspetti e funzionamenti particolari, quali ad esempio le lezioni e le raccomandazioni.
Un’ultima questione di grande importanza affrontata dal libro e che lascia però molti interrogativi aperti, riguarda la valutazione dei risultati raggiunti. Nonostante l’intero libro sia pervaso da un grande afflato e dalla sensazione di stare portando avanti un lavoro di notevole valore e importanza emergono allo stesso tempo i dubbi dell’autrice (e del gruppo di colleghi) rispetto alla possibilità di potere fare realmente la differenza all’interno di un sistema che continua a funzionare secondo logiche aberranti. Si tratta di un’ambiguità che percorre il libro fino alla fine. Così ad esempio lo spazio del progetto viene riconosciuto come luogo di decompressione, zona “franca” rispetto al clima di violenza e paura vissuto nel quartiere, ma osservarne gli esiti positivi sul territorio diventa impresa ardua. A conclusione, non mancano i dubbi e gli interrogativi dell’autrice rispetto all’impatto di Chance sulle vite dei ragazzi seguiti. Forse la possibilità di avere offerto qualche possibilità di scelta in più. Si tratta a mio parere di un interrogativo rispetto al quale si pone la necessità di fornire risposte più puntuali e accurate.
Titolo: Insegnare al principe di Danimarca; autore: Carla Melazzini; casa editrice: Sellerio Editore; 2011.
Le foto sono state prese dalla pagina FB Case Popolari.