Tutti pronti per Manifesta 12?

E finalmente siamo alla vigilia di Manifesta 12, la biennale d’arte nomade, che da diversi mesi ormai tiene buona parte dei professionisti, artisti e operatori del settore culturale e turistico in grande fermento presi da una ventata di ottimismo e curiosi di capire quello che avverrà in città nei prossimi mesi.

La navicella spaziale di Manifesta, scesa direttamente dall’Olanda, da settimane si è installata al teatro Garibaldi trasformando piazza Magione nel suo quartier generale da cui irradierà per i prossimi cinque mesi le proprie attività. I giornali ne parlano di continuo, annunciano il sold out in alberghi e b&b. Ed effettivamente girando per strada è evidente l’aumento di presenze straniere in città, le politiche di rilancio turistico e culturale messe in campo dal sindaco sembra stiano dando i loro effetti. Non solo lungo gli assi principali del centro storico, sempre più gremiti di bancarelle e di turisti (secondo uno stile che a dire il vero talvolta ricorda forse più le sagre di paese che la grande città europea), ma anche le viuzze dei quartieri interni si popolano sempre più di gruppetti con audioguide arancioni, coppie felicemente perse tra vicoli, piazze e mercato, singoli viaggiatori immersi nel loro viaggio personale nel viaggio reale. I loro occhi luccicano e si riempiono mentre poco più avanti il mercataro di una delle bancarelle del Capo sgrida la moglie per non avere sorvegliato a dovere la frutta e verdura esposta: “Ma non lo vedi che il mercato cambia ogni giorno?”.

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ph. Mauro Filippi – Piazza Garraffello 

E nel frattempo aumenta la curiosità di amici e colleghi che in Italia e all’estero chiedono notizie e prenotano un biglietto per riuscire a passare almeno qualche giorno in questa città che grazie Manifesta e al titolo di Capitale italiana della cultura sembra aprirsi definitivamente a nuove traiettorie di cambiamento. Che impatto avrà tutto questo fermento sulla città? Se arte e cultura sono motori di rigenerazione urbana, così come largamente affermato nella letteratura internazionale ma anche nella retorica ufficiale, in che modo si attiveranno nuovi circoli virtuosi di sviluppo?

Noi di Sguardi Urbani siamo curiosi di scoprilo e desiderosi di raccontarvelo. Seguiteci nelle prossime settimane!

Note di lettura – Lo ZEN di Palermo: antropologia dell’esclusione

Il libro di Ferdinando Fava può essere considerato un riferimento imprescindibile per chi  si occupa di periferia e ancor più del quartiere ZEN di Palermo. Il libro è infatti in primo luogo uno strumento di conoscenza del quartiere, in quanto tenta di individuare e decostruire da un punto di vista etnografico le rappresentazioni del quartiere proprie dei diversi soggetti in gioco. Per questa ragione il testo e la ricerca svolta da Fava si è articolata seguendo di volta in volta l’immagine che i media e i discorsi politici restituiscono del quartiere, i discorsi degli operatori del Progetto Zen a proposito dei problemi dell’utenza e delle prassi di intervento, infine le rappresentazioni degli abitanti del quartiere. Nonostante le profonde differenze tra questi tre attori, la ricerca mette in evidenza come la presenza di una “frontiera” tra il quartiere e la città venga data per assodata e come ognuno dei personaggi e dei testi ripercorsi in questo libro si trovi di fronte alla necessità di confrontarsi con questo margine, articolandolo in modi spesso diversi l’uno dall’altro, decostruendo anche gli stereotipi che costruiscono il concetto di “periferia”, e di svelare i meccanismi che portano a definire un luogo come “altro” o meglio “escluso” dal resto della città. L’idea di fondo è che un luogo non sia periferico perché oggettivamente definibile come tale, ma lo diventi perché inteso come al margine nelle rappresentazioni degli attori che a questo fanno riferimento.

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Foto di Elizabeth Zenteno

Il libro si articola in quattro capitoli più le conclusioni. Nel primo capitolo l’autore svolge una rassegna ragionata della letteratura sia di settore che generalista che attorno allo ZEN ci fosse l’aura di un quartiere “ghetto”: distante, differenziato e segregato e con un impatto altamente stigmatizzante, che pone inevitabilmente la necessità per chiunque vi abbia a che fare, soprattutto per i residenti, di fare i conti con queste rappresentazioni. Per questi ultimi l’effetto di ghettizzazione percepito determina l’esigenza di reagire, o negando questa presunta alterità, fatta di carenze igieniche e abitative, degrado sociale e microcriminalità, o denunciando la gravità della situazione. Il secondo capitolo svolge una funzione di preparazione alla lettura dei successivi due poiché esplicita le modalità attraverso cui è stata portata avanti l’inchiesta e i principi metodologici che l’hanno guidata. A inizio del capitolo l’autore spiega la fondamentale differenza tra partecipazione e implicazione del ricercatore all’interno del campo di ricerca, sottolineando l’importanza di riflettere sul processo di implicazione del ricercatore all’interno del campo di ricerca. Il presentarsi come ricercatore, come soggetto “altro” rispetto alla quotidianità della realtà osservata permette l’emergere di relazioni con i soggetti protagonisti dell’inchiesta che dicono molto sulle rappresentazioni e immaginari che li caratterizzano. La ricerca svolta da Fava è stata quindi svolta attraverso una continua riflessione sul processo di implicazione e sugli elementi emersi nel corso di diversi momenti di incontro con la realtà studiata: gli scambi quotidiani e i racconti a orientamento biografico. 

Il terzo capitolo si occupa di analizzare le rappresentazioni che dello Zen hanno gli operatori impegnati nel quartiere e in particolare quelli coinvolti nel Progetto Zen del 1993, il cui obiettivo era quello di ridurre il rischio del coinvolgimento dei minori in attività criminose. In primo luogo, l’autore si preoccupa di individuare attraverso la lettura del documento di progetto le rappresentazioni del quartiere alla base del progetto, che risultano però essere del tutto conformi all’immaginario evocato dai media e messo in evidenza nel primo capitolo. Anche in questo caso l’immagine dello Zen che emerge è quella di quartiere altamente problematico sia dal punto di vista sociale che abitativo. All’origine della situazione di disagio sociale sembra collocarsi la famiglia “multiproblematica” caratterizzata dallo scarso livello educativo, dalla cultura dell’arrangiarsi, dalla quotidiana ricerca di espedienti, dall’assenza di senso del futuro. A renderla problematica è inoltre la scarsità di risorse economiche e il degrado dello spazio urbano vissuto (assenza di spazi pubblici, abitazioni in cattive condizioni, presenza di rifiuti per strada). I racconti a sfondo biografico degli operatori coinvolti nel progetto non fanno poi che confermare queste riflessioni e riportare una conoscenza del quartiere stereotipata, poco problematizzata ed estremamente conforme alle rappresentazioni veicolate dai media. Per ciascuno dei resoconti degli operatori l’autore mette in correlazione le vicende biografiche e di carriera con le rappresentazioni che essi hanno dello Zen. Viene così svelato il meccanismo secondo cui questi tendono ad interpretare il quartiere e i suoi problemi a partire dalla proiezione su di esso di categorie derivanti dal loro background culturale. Il capitolo offre così una riflessione sulle pratiche di intervento che spesso risultano inefficaci poiché la possibilità di apportare un cambiamento si scontra con la conseguente necessità di modificare l’impalcatura simbolica della rappresentazione dominante (improntata su una rappresentazione passiva degli abitanti) su cui si fonda e che giustifica il Progetto Zen. Il quarto capitolo sposta l’attenzione sugli abitanti del quartiere, rivelandone storie e caratteristiche del tutto diverse rispetto alle rappresentazioni emerse nel corso dei primi capitoli. I resoconti riportati restituiscono la varietà e multidimensionalità delle storie degli abitanti che in tutte le loro vicende dimostrano grande resilienza e capacità di gestire e far fronte alle difficoltà succedutesi nel corso della loro vita. All’interno di ogni racconto, viene sottolineata l’esigenza degli intervistati di confrontarsi con lo stigma esistente rispetto al quartiere e di prendere le distanze rispetto all’idea di marginalità che nei discorsi pubblici viene attribuita ai suoi abitanti. Nelle conclusioni l’autore torna a sottolineare l’importanza dell’implicazione del suo stesso ruolo di ricercatore all’interno del quartiere e di come solo in questo modo sia stato possibile per lui conoscere e quindi svelare i meccanismi di costruzione di una visione stigmatizzata del quartiere e allo stesso tempo, ascoltando i residenti, di costruire un racconto nuovo dello Zen.

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Foto di Elizabeth Zenteno

In conclusione la metodologia di adottata da Fava propone chiavi di lettura particolarmente interessanti per lo studio delle periferie urbane: l’attenzione sul processo di implicazione di soggetti “altri” rispetto alla quotidianità della realtà osservata pone sicuramente delle questioni piuttosto complesse soprattutto per quanto riguarda le possibilità di accesso al campo di ricerca e alle relazioni con i soggetti coinvolti nell’inchiesta. Infine il libro lascia  aperti degli interrogativi di particolare importanza per chi si approccia alla ricerca con l’intento di apportare un cambiamento nel contesto analizzato. Se il libro permette di decostruire alcune rappresentazioni cristallizzate e poco problematizzare attraverso cui viene letto il territorio e realizzati gli interventi, poco viene detto su come trasformare questo nuovo racconto del quartiere in nuove prassi di intervento. Rimangono dunque da definire le modalità o categorie attraverso cui leggere gli aspetti problematici di un quartiere e le relative strategie di intervento, cercando di resistere al tentativo di proiettare sui suoi abitanti categorie imposte dall’alto o provenienti dal nostro vissuto.

“Il mio testo non sarebbe nulla se i miei interlocutori non mi avessero rivolto la parola. Questa mi autorizza a parlare perché mi permette prima di tutto di darle risposta. Rappresentare questa parola è allora il nodo centrale, a un tempo redazionale, epistemologico e politico. ”

Ferdinando Fava

Titolo: Lo ZEN di Palermo: antropologia dell’esclusione; autore: Ferdinando Fava; casa editrice: Franco Angeli, 2008.

 

Nota di lettura – Insegnare al principe di Danimarca

“Insegnare al principe di Danimarca” di Carla Melazzini è un diario personale che racconta l’esperienza del “Progetto Chance”, un progetto di scuola alternativa per bambini e ragazzi a rischio di dispersione scolastica portato avanti dal 1998 al 2006 e al quale l’autrice ha partecipato come insegnante a Ponticelli, quartiere periferico di Napoli.

13923344_1625698694427083_5017192875341320669_oLungo tutto il libro la Melazzini riflette sulla sua esperienza di educatrice all’interno del progetto, raccontando criticità e punti di forza, mettendo a fuoco gli insegnamenti appresi  e tentando una riflessione sugli esiti prodotti. Il fine che anima il diario è da un lato metodologico, in quanto mira a restituire alla comunità pensante la ricchezza di esperienza raccolta nel campo della dispersione scolastica, dall’altro è fortemente politico, poiché mira a sfatare tutta una serie di stereotipi relativi alle periferie, alla costruzione dell’idea di periferia e dei suoi problemi svelandone l’ideologia borghese soggiacente. 

Il testo tratta in modo non convenzionale e con approccio innovativo le pratiche educative di contrasto della dispersione scolastica. Le osservazioni proposte nascono da un’attività riflessiva fatta sull’esperienza condotta personalmente e non osservata dall’esterno. Per tale ragione la conoscenza proposta è nuova rispetto alla materia trattata, e riesce a decostruire alcuni stereotipi relativi all’intervento sociale nelle periferie adottando più che il punto di vista del ricercatore impegnato nell’indagine etnografica, quello del “professionista riflessivo” che, riflettendo sulla propria esperienza professionale, riesce a produrre nuova conoscenza utile a essere condivisa in una comunità di pratiche. Proprio per questo motivo Melazzini si preoccupa di tirare le somme della propria esperienza , fornendo indicazioni metodologiche specifiche utili agli addetti ai lavori o comunque al lettore interessato al tema. Una delle novità apportate dall’autrice è infatti la definizione dell’incontro antropologico che si instaura tra ragazzo ed educatore, fondato sullo scambio  e sull’apprendimento reciproco: alla base del progetto educativo c’è dunque una nuova visione del rapporto studente/insegnante, inteso come relazione di incontro dove secondo “l’assioma della significanza” si deve tornare al grado zero della parola per ristabilirne da capo i significati, voltando pagina rispetto al rumore in cui ragazzi sono immersi. Alla base di questa novità vi è, secondo l’autrice, una teatralità insita nei ragazzi le cui rappresentazioni volontarie o inconsapevoli hanno un grande valore in funzione catartica: molti dei loro comportamenti attuati all’interno degli spazi del progetto vengono interpretati secondo la logica teatrale dove tutto è una continua performance, un rituale. Ciò permette così di scovare i significati profondi delle azioni dei giovani, i loro bisogni e desideri reali. 

Il racconto delle vicende e dei momenti più significativi del progetto avviene attraverso  un duplice punto di vista:  quello dei ragazzi, dei quali vengono raccontati paure e desideri, e quello degli insegnanti, delle difficoltà incontrate quotidianamente nel lavoro coi ragazzi. Vengono ripercorsi gli sforzi di questi ultimi nell’adeguarsi e trovare soluzioni sempre più efficaci ai problemi e questioni di volta in volta emergenti. Vengono così scanditi i momenti di blocco, di crisi, ma anche di successo e di acquisizione di consapevolezza rispetto alle vicende vissute, come ad esempio la presa di coscienza che non tutti i problemi sono risolvibili, che molto dipende dal contesto. Si arriva alla consapevolezza che alcuni casi sono affrontabili solo se il cambiamento è “psichicamente sostenibile”. Nella seconda parte del libro vengono proposte invece riflessioni più generali sulle modalità di organizzazione e radicamento della camorra nei quartieri e nelle vite dei ragazzi, sulle modalità di nascita delle periferie e della loro permanenza del tempo, il tutto attraverso uno sviluppo non propriamente organico ma la cui coerenza fa riferimento alla cornice generale del testo che ha come oggetto la restituzione dell’esperienza.

Dal punto di vista etnografico vi è poi da parte dell’autrice una nuova consapevolezza su come il miglioramento della propria condizione e così anche la voglia di conoscere e coltivare la propria cultura personale possa variare notevolmente a seconda delle classi sociali di appartenenza. Così mentre nei ceti piccolo borghesi ai figli viene trasmessa la necessità di raggiungere traguardi più alti di quanto fatto dai genitori, nel classe del sottoproletariato invece ci si accontenta dei guadagni secondari, in quanto manca la cultura del migliorare la propria condizione. Tale consapevolezza si sposa all’interno del libro con l’intento di critica dell’istituzione scolastica che a mio avviso costituisce una riflessione fondamentale per ripensare il problema della dispersione scolastica nei quartieri periferici. La scuola viene profondamente criticata sia nell’impostazione di fondo che in aspetti e funzionamenti particolari, quali ad esempio le lezioni e le raccomandazioni.26168002_1910498749280408_3919899751921391582_n

Un’ultima questione di grande importanza affrontata dal libro e che lascia però molti interrogativi aperti, riguarda la valutazione dei risultati raggiunti. Nonostante l’intero libro sia pervaso da un grande afflato e dalla sensazione di stare portando avanti un lavoro di notevole valore e importanza emergono allo stesso tempo i dubbi dell’autrice (e del gruppo di colleghi) rispetto alla possibilità di potere fare realmente la differenza all’interno di un sistema che continua a funzionare secondo logiche aberranti. Si tratta di un’ambiguità che percorre il libro fino alla fine. Così ad esempio lo spazio del progetto viene riconosciuto come luogo di decompressione, zona “franca” rispetto al clima di violenza e paura vissuto nel quartiere, ma osservarne gli esiti positivi sul territorio diventa impresa ardua. A conclusione, non mancano i dubbi e gli interrogativi dell’autrice rispetto all’impatto di Chance sulle vite dei ragazzi seguiti. Forse la possibilità di avere offerto qualche possibilità di scelta in più. Si tratta a mio parere di un interrogativo rispetto al quale si pone la necessità di fornire risposte più puntuali e accurate.

Titolo: Insegnare al principe di Danimarca; autore: Carla Melazzini; casa editrice: Sellerio Editore; 2011.

Le foto sono state prese dalla pagina FB Case Popolari.

 

Bordeaux: tra dinamiche urbane ormai consolidate e nuove professioni emergenti

Grazie al progetto Erasmus plus “Moving towards inclusion” realizzato dall’associazione Lisca Bianca, tra giugno e luglio ho avuto modo di conoscere la città di Bordeaux, in particolare per quanto riguarda i progetti legati ai temi dell’inclusione sociale, rigenerazione urbana e partecipazione cittadina.

Cominciamo con un po’ di contesto…

Bordeux è una città che negli ultimi venti anni, a seguito di un lungo periodo di inerzia, ha deciso di avviare imponenti trasformazioni. La posizione strategica sull’atlantico insieme al centro storico di notevole pregio (dal 2007 è stato dichiarato Patrimonio Unesco) ne fanno una città con tutte le carte in regole per entrare nell’alveo della competizione tra le città.

A tal fine le politiche urbane intraprese hanno cercato da un lato di rinnovare il centro città risistemando i principali spazi pubblici e migliorarne i servizi attraverso una rete capillare di trasporto efficiente e innovativo (il tram si muove in città senza fili ed è alimentato dalle rotaie), dall’altro di creare un nuovo asse di sviluppo della città lungo il fiume Garonna per mitigare il dislivello economico e sociale tra la riva sinistra e quella destra.

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Attualmente la popolazione è di 760.000 abitanti ma l’obiettivo della città è di raggiungere la cifra di 975.000 entro il 2030. Anche in funzione di ciò è in previsione la costruzione di 60.000 nuovi alloggi divisi tra dentro e fuori il perimetro urbano.

Le esperienze che abbiamo incontrato e conosciuto nel corso del nostro soggiorno hanno confermato questo fermento, le realtà che si occupano di partecipazione sono diverse e secondo modalità molto variegate. Partendo dalle esperienze nate dal basso spostandoci verso quelle più istituzionalizzate abbiamo incontrato:

  • Yacafaucon, associazione di vicini nel quartiere Saint-Jean/Sacré Coeur, che ha aperto un bar che organizza attività culturali (e non solo) molto accessibili economicamente e aperte a tutti i residenti. Il funzionamento dell’associazione è garantito dal lavoro volontario dei benevole (così si chiamano in Francia) e dalla presenza di due risorse umane impiegate a tempo pieno;
  • Rue Jardin Kléber, progetto promosso dal comune di Bordeaux e sviluppato dal giardiniere urbano Julien Beauquel all’interno del quartiere Marne Yser, caratterizzato da una cospicua comunità spagnola trasferitasi lì durante la seconda guerra mondiale, con l’obiettivo di trasformare la strada di rue Kleber in una strada giardino. L’intervento sembra essere scaturito da un processo partecipato svolto nel 2012 a seguito del quale il comune ha poi messo a bando il finanziamento per la realizzazione della via giardino. Nonostante questo Julien, che ha seguito il progetto per 3 anni ci racconta delle resistenze iniziali degli abitanti che temevano che l’intervento avesse come obiettivo implicito la gentrificazione dell’area;
  • Compagnons Batisseur, movimento associativo di educazione popolare che da più di cinquant’anni si occupa di percorsi di formazione e inserimento lavorativo, e di accompagnare gli abitanti di un quartiere con disagio abitativo all’autocostruzione e ristrutturazione delle proprie abitazioni. In particolare il progetto che abbiamo avuto modo di visitare ha sede in un quartiere situato lungo la riva destra del fiume, storicamente la parte più povera della città. Qui abbiamo incontrato Lorenzo, uno degli animatori tecnici dell’associazione, che ci ha spiegato come nel suo lavoro siano necessarie da un lato le competenze tecniche per potere insegnare alle famiglie come rifare la propria casa, dall’altro competenze di intervento sociale, necessarie ad accompagnare le persone in questi percorsi di emancipazione sociale ed economica;
  • Darwin Ecosystem, uno spazio multifunzionale nato all’interno di un grande complesso di archeologia industriale grazie al particolare rapporto di collaborazione tra la società proprietaria di uno degli immobili e il Think Tank Evolution, insieme a un gruppo di creativi che hanno deciso di trasformare quel luogo in ambiente multifunzionale improntato ai principi della transizione energetica e della sostenibilità ambientale;
  • Chahuts, il festival dell’arte della parola che si svolge nel quartiere Saint Michel. Il quartiere, situato nel centro della città e caratterizzato da un patrimonio artistico e architettonico di grande pregio, è anche storicamente uno dei più popolari e con un elevata percentuale di popolazione immigrata. A partire dal 2002 l’area è stata oggetto negli ultimi anni di un profondo restyling che ne ha mutato profondamente l’aspetto e le dinamiche di vita, nonché la tipologia di residenti. Le trasformazioni avvenute sono state oggetto di grande di dibattito in città, per via del pericolo dell’avvento di dinamiche di gentrificazione. L’organizzatrice stessa ci racconta delle resistenze incontrate nella realizzazione delle attività del festival da parte dei residenti, timorosi che si trattasse dell’ennesimo intervento generatore di uno stravolgimento delle routine di vita del quartiere. Il racconto dell’iniziativa è appassionante: laboratori teatrali, mostre, raccolte di pensieri e paure dei residenti, pranzi in piazza e rievocazioni del vecchio mercato che un tempo si svolgeva nella piazza piazza. La nostra interlocutrice ci racconta del rifiuto di accogliere il supporto della municipalità (nonostante l’associazione sia comunque alimentata da fondi pubblici). Le chiediamo perché, visti i timori degli abitanti, tali attività di partecipazione non siano state svolte prima o durante l’effettiva risistemazione della piazza, e la risposta è che se si ascoltano le paure dei cittadini si rischia di non riuscire a cambiare mai niente. A Saint Michel ci siamo passati più volte, nelle nostre passeggiate e spostamenti, e l’aspetto attuale è quello di un quartiere vetrina, delizioso nell’aspetto ma forse un po’ anonimo nonostante le chiese e i monumenti,  poco o nulla sembra avere conservato dell’originalità di un tempo;
  • Mediapilote, agenzia di comunicazione e partecipazione che si riallaccia alla lunga e consolidata tradizione partecipativa francese che comincia coi débat public degli anni ’90. Mediapilote si occupa di progettare e realizzare grandi progetti di partecipazione su tematiche principalmente collegate alle politiche urbane e alla salvaguardia dell’ambiente. Progetti talmente grandi che seguirne le tappe risulta complicato.

Insomma i giorni a Bordeaux hanno permesso di cogliere analogie e differenze con quanto si vede qua in Italia. Da un lato avere incontrato figure professionali nuove, come quelle dell’animatore tecnico o del giardiniere urbano è stato estremamente interessante. Sono profili che, adattando al mutare dei contesti e alle esigenze poste da modalità di intervento sempre diverse, reclamano la necessità di ibridare le competenze unendo a saperi e capacità tecnici e manuali, capacità relazionali forti, prese in prestito dal l’ambito dell’intervento sociale. L’innovazione emergente dall’esperienza sul campo poi trova spazio nell’ambito istituzionale visto che sia per quanto riguarda la figura dell’animatore tecnico che per quanto riguarda quella del giardiniere urbano c’è un impegno affinché queste vengano ufficialmente riconosciute come professioni. Altro aspetto importante riguarda la durata dei progetti all’interno dei quali tali figure si trovano a operare. In molti casi abbiamo incontrato interventi continuativi e full time della durata di 3-4 anni, orizzonte temporale che da la possibilità di conoscere veramente un quartiere e le sue dinamiche, di costruire con tranquillità le relazioni con gli abitanti, senza doversi preoccupare della scadenza del progetto al decorrere dei sei mesi, un anno che di solito caratterizzano i progetti italiani in questo settore. Il finanziatore inoltre non è la fondazione di turno, ma la municipalità o lo stato che ha al suo interno una linea di finanziamento specificatamente rivolta a quel determinato ambito d’intervento, aspetto che garantisce una certa continuità di intervento.

All’innovatività di figure professionali e modalità di azione ( i “chantiers d’insertions” per l’accompagnamento all’autocostruzione delle proprie abitazioni costituiscono una possibile soluzione  all’insanabile conflitto tra disagio abitativo, carenze di fondi, dinamiche di occupazione e condizioni di difficoltà economica e sociale di chi vive in periferia) non corrisponde però una maggiore riflessione e riflessività sulle attività svolte. Nei racconti dei nostri interlocutori  la dimensione sociale e storica dei quartieri fa fatica ad emergere, manca una problematizzazione del proprio operato in termini di risultati raggiunti, ostacoli, processi.

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Guardando alla città in scala macroscopica la varietà e molteplicità di esperienze partecipative realizzate o in corso perdono però di senso alla luce delle dinamiche di gentrificazione che hanno attraversato e attraversano la città e che seppure in modo latente emergono spesso nel corso dei racconti lasciando un velo opaco sulle realtà incontrate. Lo sguardo dall’alto permette però di costruire un quadro più chiaro su quanto sta avvenendo nelle grandi città europee e non solo. Si torna a casa con qualche dubbio in più rispetto al ruolo che la partecipazione dei cittadini gioca in questi contesti, se possa almeno in alcuni casi essere capace di inibire o mitigare le ineguaglianze all’interno della città, o avere unicamente una funzione consolatoria.

 

La calda estate dei festival siciliani

Agosto si avvicina e così anche le agognate vacanze. Per chi rimane nell’isola o per chi intende raggiungerla una buona notizia: di anno in anno l’offerta di festival di cui è possibile godere andando in giro lungo la trinacria nel periodo estivo aumenta. Primi fra tutti quelli dedicati alla musica. Si va da realtà ormai consolidate come l’Ypsigrock di Castelbuono, il NIM Nuove Impressioni di Alcamo a quelli di età più recente come il Mish Mash di Milazzo, di sapore casalingo e genuino come il Sincero Festival di Palazzolo Acreide  o festival itineranti che fanno tappa in Sicilia come il Raduno Mediterraneo di Jazz Manouche che anche quest’anno si svolgerà a Petralia Sottana. Poi ci sono i festival dedicati all’arte, intesa come arte di strada nel caso del Valdemone Festival di Pollina o street art nel caso di Festiwall a Ragusa. Non mancano nemmeno le iniziative che guardano in modo particolare al territorio come il festival organizzato da Periferica a Mazara del Vallo o che promuovono iniziative e interventi artistici come strumenti di riflessione sui centri storici e sulle periferie della propria città come il Cufù Festival di Castrofilippo o Pixel Urbani di Cammarata. Diversi sono poi i festival dedicati al cinema come il festival internazionale del cinema di frontiera di Marzamemi o il Visioni Notturne Sostenibili di Gibellina incentrato sul cinema documentario o ancora il piccolo ma gustoso Animaphix di Bagheria rivolto al cinema d’animazione (non citiamo il Sicilia Queer Film Fest di Palermo e il Sicilia Ambiente Documentary Film Festival di San Vito Lo Capo solo perché già passati). Infine non vanno dimenticate le iniziative dedicate alle danze e musiche tradizionali come il Taranta Sicily fest di Scicli o il Festival delle Tradizioni Popolari di Petralia Sottana.

Con Marco e Mauro, compagni di avventura nella redazione di Street Art in Sicilia: guida ai luoghi e alle opere, abbiamo avuto la possibilità di conoscere da vicino alcune di queste realtà. Si tratta spesso di festival organizzati da gruppi di giovani, altamente qualificati che cercano di spendere al meglio le proprie competenze, spesso maturate fuori dall’isola, per valorizzare i loro territori di provenienza. Dietro l’organizzazione di un piccolo evento dunque tanta passione ma anche fatica nel dialogare con le amministrazioni cercando di portare piccole innovazioni nelle politiche locali e grande impegno volto a trovare sponsor e finanziamenti in una terra in cui la cultura dell’investimento in cultura è ancora troppo poco sviluppata.

Non sapete da dove cominciare visto l’imbarazzo delle scelta? Ebbene ecco i consigli della casa.

Se i primi di agosto vi trovate nell’agrigentino non perdetevi il Cufù Festival di Castrofilippo dall’1 al 7 agosto, che unisce in maniera accurata musica, arte e intervento urbano. Il paesino ospita

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appena 3000 anime e proprio da questo nasce il nome dell’iniziativa che riprende l’espressione siciliana “cu fù?” (chi fu?) volta a sottolineare l’intento del festival di rianimare la piccola cittadina e riattivarne i luoghi e le risorse. Il festival è alla sua quarta edizione e se negli anni precedenti ha avuto luogo nel centro storico del paese quest’anno ha deciso di spostarsi su un’area un po’ più periferica delimitata dal complesso delle case popolari di via Bonsignore. Il festival ospita ogni anno interventi di arte urbana e quest’anno è la volta del collettivo Sbagliato, progetto artistico nato nel 2011 da tre architetti e designers romani, uniti dal desiderio di generare un’interferenza nel tessuto urbano, capace di catturare l’attenzione del passante per stupirlo e stravolgere la sua percezione dello spazio.
Se invece vi trovate nella parte più occidentale dell’isola potete invece approfittarne per fare un salto al festival di rigenerazione urbana organizzato all’interno del progetto Periferica a Mazara del Vallo dal 28 luglio al 6 agosto.  Il festival si articola in una summer school e una serie di iniziative culturali che hanno lo scopo di portare avanti la riflessione sul tema della rigenerazione urbana con particolare attenzione al luogoestremamente particolare nel quale si svolge: un’area dismessa di 3000 mq, composta da una cava di tufo e un ex asilo degli anni ’80.  Obiettivo del progetto Periferica è quello di rifunzionalizzare questo spazio rendendolo motore propulsore per nuovi processi di sviluppo e rigenerazione urbana per il

Screen Shot 2017-07-26 at 01.19.05quartiere Macello, nella prima periferia nord, e per il resto della città (un piccolo gioiello ancora poco conosciuto). Le lezioni della summerschool rivolte a studenti, le talk con professionisti provenienti da background diversi e gli altri eventi culturali che animano il festival vanno tutti in questa direzione: veicolare le migliori idee e spunti sul tema della rigenerazione urbana, formare nuovi professionisti e creare nuove reti di collaborazione tra studenti, giovani professionisti, studi professionali e realtà di produzione culturale ed artistica,imprese, istituzioni. Nell’edizione di quest’anno si parlerà di “Micro villaggio per Macro visioni”, sviluppando il tema dell’insediamento attraverso le tre parole chiave OspitareNutrireEmozionare.

Sia che vi trovate nell’entroterra agrigentino che verso il mare del trapanese non lasciatevi scappare l’occasione di conoscere queste realtà, avrete la possibilità di divertirvi ma anche di incontrare professionisti competenti e desiderosi di confrontarsi con idee e punti di vista diversi. Dunque non semplice intrattenimento ma anche serio impegno nella promozione del proprio territorio.

Cronache da Librino

Condivido con voi qualche riflessione frutto dell’ultima esperienza di ricerca svolta nel quartiere Librino a Catania.

Entri a Librino e ti chiedi dov’è che si trova la famigerata periferia di cui parlano giornali e ricerche universitari. Attorno vedi tanti palazzoni alti e stretti, sono le case di edilizia popolare, insieme a case più basse, appartenenti alle cooperative. Il degrado urlato e gridato che ti trovi quando entri allo Zen di Palermo non lo trovi quando vai a Librino. Di certo non si tratta di un posto particolarmente bello, ma non è molto diverso da tante parti nuove di città costruite senza particolare criterio.

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Le interviste con assistenti sociali dell’ussm e uepe aiutano a fare chiarezza a proposito. Mi raccontano che si tratta di alcune strade, viale Moncada e via Bummacaro, quelle in cui si concentrano le situazioni di grave disagio sociale. L’organizzazione urbanistica non aiuta a identificare i luoghi. I viali infatti cambiano nome a seconda del senso di marcia e un singolo numero indica un complesso di palazzi. Come nel caso di viale Moncada 16.

E’ proprio lì che Grazia mi propone di seguirla per una visita domiciliare. Dice che per capire certe situazioni devo vederle. Accetto senza farmelo ripetere due volte. Insieme ad un’assistente sociale del Comune e con l’autista, figura maschile che dovrebbe dare sicurezza, saliamo al settimo piano di viale Moncada 16. Come già preannunciato non ci sono citofoni, appositamente rimossi, o ascensori funzionanti. All’ingresso domina la monnezza e le mosche che escono da porte semiaperte che nascondono non si sa che cosa. Saliamo a piedi, quasi fossero gironi dell’inferno i cui numeri sono scritti a penna sui muri scrostati.

Arriviamo a casa di Christian, 14 anni, autista di una rapina avvenuta circa 2 mesi fa con altri 3 ragazzini di cui uno è morto e gli altri 2 in carcere. Ci apre la sorella più grande che lo chiama mentre sparecchia la tavola. Christian, nervoso e gridando verso la sorella, si siede alla tavola che la sorella si affretta a sparecchiare. Risponde a mala pena alle domande dell’assistente sociale. Per l’imbarazzo della situazione abbasso lo sguardo verso il tavolo dove ora è rimasto un oggetto che a prima vista era passato inosservato: una pistola.

L’assistente sociale la prende in mano a mo’ di sfida e facendola roteare con marcato accento catanese dice: “e questa che è? Un giocattolo?”. Continuano le domande a cui Ivan risponde a fatica. E’ il momento di lasciare loro maggiore privacy e io e l’autista scendiamo giù per tornare all’auto. Di fronte a noi un gruppetto di 4 ragazzi apparentemente intenti a gozzovigliare ma con un occhio buttato verso di noi. Dopo un po’ si affaccia Ivan dalla finestra in alto che ci avverte che le colleghe stanno scendendo. Fa poi un cenno al gruppetto dei quattro, un lasciapassare nei nostri confronti.

Tornando in auto verso il centro dei servizi territoriali mi rimane la sensazione che il palazzo, anzi l’insieme di palazzi all’interno del medesimo isolato sia una fortezza inespugnabile (non a caso l’ultima operazione antidroga è stata denominata “Fort Apache”). Controllata dal basso e dall’alto è impossibile accedervi senza che gli abitanti siano consenzienti. Volutamente trasandata al di fuori, in modo da rendere gli appartamenti difficilmente identificabili e raggiungibili dagli esterni. Uno stato di cose chiaramente funzionale all’autosegregazione necessaria per svolgere attività illecite etc. All’interno oltre a case malandate si trovano anche abitazioni super curate. Le assistenti sociali mi raccontano che spesso le case delle famiglie mafiose hanno tutti i tipi di comfort e arredamenti anche molto costosi. Ma la tendenza anche in questo caso è quella di nascondere il più possibile questo benessere a meno che il rapporto di confidenza con chi visita la famiglia non sia tale da potere permettere l’accesso all’intimità della casa. E’ così che alla prima visita le assistenti sociali visitano appartamenti di una stanza, che la volta dopo diventano due, e a seguire tre e quattro. Un sistema complesso di soglie (nella casa) e di limiti (rispetto al palazzo) tra cui è difficile muoversi se non grazie alla costruzione di una relazione di fiducia e di empatia profonda. E’ per questo che non tutti hanno lo stesso grado di accesso a questi spazi: le assistenti sociali dell’Ussm sono quelle che riescono a muoversi più facilmente, il loro arrivo viene annunciato con un fischio, quelle dell’Uepe o del comune sono percepite come più pericolose, il loro arrivo viene comunicato con due fischi. I limiti e le soglie che regolano la vita di questa parte di quartiere non sono solo fisici, ma anche simbolici. Un limite netto nella vita dei ragazzi ad esempio è quello dei 18 anni, dopo i quali si entra nella fase adulta della vita in cui è necessario contribuire al mantenimento della famiglia. Le assistenti sociali che prima di questa età hanno il consenso da parte della famiglia nel coinvolgere il ragazzo, assisterlo e seguirlo, superato questo momento perdono qualsiasi possibilità di controllo sulla condizione del ragazzo. Questo almeno per quanto riguarda i ragazzi “strutturati”, ovvero coloro che appartengono a famiglie di stampo mafioso e si muovono dunque all’interno di una cultura “parallela” rispetto a quella “ufficiale” propria delle persone comuni. Rispetto al sistema culturale delle famiglie mafiose le assistenti sociali dell’ussm mostrano un atteggiamento di rispetto. Per loro si tratta a pieno titolo di un sistema di norme alle quali le famiglie, come avviene in qualsiasi sistema di regole, cercano di aderire il più possibile. Questo riconoscimento è reciproco per cui anche le madri dei ragazzi presi in carico mostrano rispetto per un sistema altro dal loro che non giustificano ma comprendono. Il rapporto con le assistenti sociali è fatto così di un continuo gioco di negoziazione tra soglie di accesso e relazione tra due mondi culturali estremamente diversi. Tra questi sono costretti a muoversi anche i ragazzi in carico ai servizi. Il percorso di rieducazione prevede una progressiva presa di distanza dal modello culturale di appartenenza e il momento della fine del percorso educativo è cruciale da questo punto di vista. Ritornare a casa significa rientrare a far parte di quel mondo. Resistere a questo processo è quasi impossibile. In alcuni casi l’alternativa è il suicidio.

Diverso è il caso dei ragazzi “non strutturati”, cioè non appartenenti a famiglie mafiose ma caduti in attività illegali. In questo caso il lavoro svolto dalle assistenti sociali è leggermente diverso e per certi versi più facile: il periodo in carcere spesso aiuta questi ragazzi ad allontanarsi da brutte abitudini e ritornare alla vita normale.

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