Le mani sulla città – note di sala

La scelta di analizzare la pellicola girata da Francesco Rosi nel 1963 si basa sulle forti connessioni presenti tra l’opera e la mia ricerca, legata all’attuale questione abitativa nel quartiere Kalsa del centro storico di Palermo. Questa decisione può apparire solo a prima vista anacronistica poiché

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Foto di scena del film

la visione offerta dal film sul tema della città e dei meccanismi che regolano e determinano le scelte delle politiche urbane abitative dei centri storici risulta essere quanto mai contemporanea. Le dinamiche messe a nudo dal film, frutto di intrighi politici e un uso avido e bieco di strumenti di pianificazione, mostrano una realtà riscontrabile anche oggi in contesti urbani eterogenei dove schieramenti politici e localizzazione geografica sembrano rappresentare variabili ed elementi identitari secondari: i centri storici delle città sembrano essere accomunati, infatti, da logiche comuni e indipendenti dal contesto. Nella fattispecie del film, la città di Napoli si dota di un’autonomia narrativa e quasi universale in grado renderla emblema dell’immaginario urbano di tutte le metropoli occidentali colpite dal dramma della speculazione immobiliare. A dar forza alla scelta de Le Mani sulla Città hanno contribuito lo spirito passionale delle due città nonché le profonde similitudini sociali e identitarie dei due centri storici che si rivelano ancora più coerenti ad offrire una valida chiave di lettura sui meccanismi politici delle strategie urbane abitative.

Il film, diretto da Francesco Rosi nel 1963, narra la vicenda di Edoardo Nottola, un consigliere comunale del centrodestra e grande imprenditore immobiliare intenzionato col sostegno del sindaco ad avviare un importante progetto edilizio in un nuovo quartiere di Napoli collocato in una zona di espansione della città diversa da quella prevista dal piano regolatore approvato. Parallelamente alle attività consiliari di Nottola, la Società Bellavista di sua proprietà esegue dei lavori in un vicolo di un quartiere popolare del centro storico che provocano il crollo di un vecchio edificio ancora abitato. I consiglieri comunali dell’opposizione chiedono a gran voce la costituzione di una commissione d’inchiesta che rappresenti tutti i partiti politici, seguiti dai giornali dell’opposizione che denunciano Nottola quale responsabile dell’incidente. Quest’ultimo però non solo non risente delle accuse a lui mosse, ma chiede al Comune di dichiarare pericolante l’intera zona. Questo al fine di  giustificare la demolizione di  tutti gli edifici della strada, ottenendo il risultato sperato di allontanamento dei residenti e lo scoppio dell’emergenza abitativa che giustificherebbe il progetto edilizio di Nottola che chiede anche di essere nominato assessore, in modo da poter controllare l’attribuzione delle gare di appalto. La vittoria del centro con cui Nottola si era nel frattempo candidato pone  la questione della sua scomoda ed inopportuna nomina in qualità di assessore che si risolve in un gioco di compromessi politici e futuri vantaggi economici. Le parti politiche concludono un accordo ed è l’imprenditore a raggiungere il proprio scopo: la realizzazione del suo grande progetto immobiliare con mire espansionistiche e di speculazione sulla città.

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Immagine tratta dai titoli di testa del film

Il linguaggio cinematografico dell’opera trova nel cinema politico degli anni ’60 e ’70, la scelta di stile adottata da Rosi perfettamente coerente e funzionale agli intenti documentaristici e di inchiesta che il regista intende percorrere con chiari richiami e radici nel Neorealismo, nato nel dopoguerra. Il pubblico d’elezione del cinema di Rosi di cui Le mani sulla città rappresenta una delle principali espressioni si identifica in uno spettatore attivo e attento alla società in cui è immerso che fuori dalla sala cinematografica consolida il proprio profilo di cittadino attivo.

Il soggetto della pellicola muove dal crollo di una palazzina nel centro storico di Napoli, evento dal quale si dipaneranno i principali fatti del film e che vedranno nello svolgimento dell’inchiesta sulla vicenda il dispiegarsi dell’intreccio degli interessi privati e pubblici sulle scelte che presiedono più o meno visibilmente i piani urbanistici e gli spostamenti di popolazione all’interno delle città. Il forte parallelismo identificabile tra il film e la ricerca consiste negli eventi che hanno caratterizzato la storia delle trasformazioni del quartiere Kalsa, oggetto di studio, interessato da misure di progressivo

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Foto di Federico Prestileo

svuotamento e allontanamento degli abitanti storici dal centro alla periferia, che trova avvio nel 1885 con l’attuazione del “Piano regolatore di risanamento” dell’ingegnere Felice Giarrusso, per poi continuare in modo ancora più significativo nella seconda metà del Novecento caratterizzandosi sia da spostamenti coatti sia da storie, numerose e a volte poco note, di esodo volontario di famiglie. La scelta da parte di queste ultime di lasciare gli alloggi del centro storico fu determinata dalla condizione spesso fatiscente delle abitazioni di residenza e li spinse a trovare un nuovo riparo nei nuovi quartieri periferici (Borgo Nuovo, CEP e ZEN). Questi ultimi presentavano però non pochi problemi strutturali, come ad esempio il ritardo nella fornitura di servizi o l’incompiutezza dei progetti edilizi, ai quali si aggiungeva l’aggravante del progressivo sgretolamento delle reti sociali e del capitale umano ad esso aggregato risalenti ai vecchi legami di quartiere. Il carattere di forte denuncia del film si muove proprio in questo ambito poiché sottolinea come spesso a presiedere le decisioni politiche in tema di strategie abitative urbane si celino intrecci, logiche di interessi privati e intenti speculativi estranei alla corretta gestione e attenzione con cui trattare fragili e delicati equilibri delle biografie abitative dei cittadini che racchiudono al loro interno quelle identitarie dei luoghi della città. Decidere sulla città e sui luoghi dell’abitare significa mettere le mani non solo sulle pietre di una città ma anche e soprattutto sulla sua anima e identità.

 

Film Le mani sulla città Produzione: Italia 1963, bianco e nero, durata: 105 min; regia: Francesco Rosi; produzione: Lionello Santi per Galatea; soggetto:  Francesco Rosi, Raffaele La Capria; sceneggiatura:  Francesco Rosi, Raffaele La Capria, Enzo Provenzale, Enzo Forcella; fotografia: Gianni Di Venanzo; montaggio: Mario Serandrei; scenografia: Sergio Canevari; costumi: Marilù Carteny; musica: Piero Piccioni.

Le città invisibili – Note di lettura

“Kublai Kan s’era accorto che le città di Marco Polo s’assomigliavano, come se il paesaggio dall’una all’altra non implicasse un viaggio ma uno scambio di elementi. Adesso da ogni città che Marco gli descriveva, la mente del Gran Kan partiva per suo conto, e smontata la città pezzo per pezzo, la ricostruiva in un altro modo, sostituendo ingredienti, spostandoli, invertendoli.”

Vogliamo partire da questa citazione dall’opera di Italo Calvino per far comprendere come la scelta per questo secondo “appuntamento” di note di lettura si sia rivelata piuttosto ostica, non solo per la ricchezza semantica del testo e il forte potere evocativo delle parole in esso contenute, ma anche per l’impossibilità di analizzarlo ancorandosi ad una cornice di riferimento teorica precisa. Nonostante questo, leggendo e attraversando le pagine del libro, mi sono accorta che il mio personale viaggio nelle parole di Calvino, affidate a Marco Polo, aveva come tacito scopo quello di rintracciare frammenti di immagini che richiamassero l’idea di un luogo specifico, quello del

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Il castello dei Pirenei – René Magritte, 1961

quartiere Kalsa, al centro del mio lavoro di ricerca, collocato nel ventre di una città come Palermo la cui storia millenaria la trasforma ogni giorno ai miei occhi in uno scrigno infinito di stratificazioni di identità e luoghi passati. Tra le tante descrizioni di città viste o sognate da Marco Polo, quella di Maurilia sembra riassumere questo aspetto:

“Guardatevi dal dir loro che talvolta città diverse si succedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome, nascono e muoiono senza essersi conosciute, incomunicabili tra loro. Alle volte anche i nomi degli abitanti restano uguali, e l’accento delle voci, e perfino i lineamenti delle facce; me gli dèi che abitano sotto i nomi e sopra i luoghi se ne sono andati senza dir nulla e al loro posto si sono annidati dèi estranei”.

Il volo pindarico dai luoghi descritti ne Il Milione, opera del protagonista del romanzo di Calvino, a quelli de Le città invisibili per arrivare, infine, ai luoghi della mia ricerca, risulta meno immaginifico se si prova a pensare che le linee di unione da tracciare passano in realtà non tra territori fisici ma tra immagini descritte dai due autori e quelle del quartiere frutto della mia interpretazione e dei miei soggettivi criteri di osservazione. Ogni popolazione prende forma dallo spazio che abita, e lo spazio, viceversa, si nutre delle reazioni che scatena su chi lo vive e verso, appunto; le forme assunte da tali interazioni nei contesti di mutamento urbano, come quello attraversato dal quartiere Kalsa, rientrano tra i miei interessi dichiarati di ricerca. Le descrizioni delle città offerte nel testo che pongono al centro degli spazi del vivere la bellezza, la fantasia, la creatività, il sogno e, soprattutto, il legame di appartenenza tra gli abitanti e lo spazio stesso rappresentano fonte di ispirazione per arricchire le mie capacità di ricerca e osservazione. La ricerca intesa come viaggio può fare spazio nell’osservazione scientifica a possibili divagazioni, proiezioni e idee su un luogo che spostano l’analisi verso scenari desiderati e non, visti o talvolta nascosti.

Nelle città descritte da Calvino, ciascuna contraddistinta da una peculiarità, al limite tra l’assurdo e il grottesco, vi è sempre una forte interazione tra i caratteri fisici dello spazio e quelli degli uomini e delle donne che lo vivono e che alimentano attraverso uno scambio continuo con il contesto circostante la loro specificità di abitanti e quella della città stessa che li ospita, indissolubilmente legati. Per questo motivo, l’impossibilità di inquadrare il testo in griglie preimpostate vuole rappresentare nel mio percorso di analisi una fonte preziosa di ispirazione a cui ancorarsi per non rimanere schiacciata da categorie teoriche di interpretazione della realtà, a volte rigide e preconfezionate, lasciando spazio alla creatività e soggettività che deriva dallo sguardo di chi osserva e attraversa i luoghi, come il viaggiatore, lo scrittore, il ricercatore.

L’opera in questione sfugge, infatti, fin dalla sua nascita a svariati tentativi di critici letterari di inquadrarla in uno specifico genere narrativo in quanto non definibile come romanzo ma più, semmai, come una serie di racconti (e non un insieme) dato il carattere estremamente eterogeneo delle composizioni, la cui brevità potrebbe anche identificarle come poesie in prosa o favole. La difficile individuazione del genere a cui appartiene il testo di Calvino riveste però non soltanto un carattere di complessità nell’analisi dell’opera ma anche una sfida aperta per critici o semplici lettori curiosi di decifrarne elementi utili a  definizioni inedite e fuori dagli schemi. Come ad esempio, l’attribuzione

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Dipinto di Francesco Musante

di un carattere liquido all’opera che lo rende non più un romanzo “comune”, da leggere per pagine consecutive, ma composto da elementi intercambiabili tra di loro, simili e allo stesso tempo diversi: in sostanza definibile come un ipertesto moderno che assume la forma che il lettore decide di conferirgli. Se ci si sofferma infatti sul significato della parola ipertesto sarà possibile trovare significative connessioni con la sperimentazione letteraria (e un po’ giocosa) di Calvino.  Sebbene tale termine trovi origine semantica nel lessico informatico (coniato nel 1965 da T. Nelson), è possibile sintetizzare il significato e declinarlo anche a differenti campi della conoscenza: un ipertesto equivale, infatti,  ad  testo/sistema organizzato in un insieme di moduli elementari che ne permette la lettura, integrale o parziale, secondo diversi percorsi logici dotati ciascuno di autonomia di significato scelti direttamente da chi li legge.  Il concetto sottostante risiede nella possibilità che la mente possa procedere non solo per sequenza logiche ma anche per associazioni di idee. Ed è proprio sulla capacità e possibilità di abbinare istintivamente le parole ad immagini che fa leva l’autore, rendendo l’opera un ipertesto ricchissimo e “portatore sano” di immaginazione.

Nella lettura del testo e delle città in esso descritte, la dimensione del viaggio possiede una carica evocativa talmente forte da superare l’idea di spostamento meramente fisico del viaggiatore tra un luogo e l’altro; le pagine sembrano, infatti, affidare al treno della fantasia un carico di immaginazione itinerante e favolistico su cui fare salire il lettore per farlo poi scendere, o meglio soffermare, su idee e sogni di città.

Titolo: Le città invisibili; autore: Italo Calvino; casa editrice: Mondadori (collana Oscar opere di Italo Calvino) ristampa anno 2016; pp. 176, Milano. Primo anno di edizione: 1972; editore: Giulio Einaudi, Roma, pp. 172.