Note di lettura – Lo ZEN di Palermo: antropologia dell’esclusione

Il libro di Ferdinando Fava può essere considerato un riferimento imprescindibile per chi  si occupa di periferia e ancor più del quartiere ZEN di Palermo. Il libro è infatti in primo luogo uno strumento di conoscenza del quartiere, in quanto tenta di individuare e decostruire da un punto di vista etnografico le rappresentazioni del quartiere proprie dei diversi soggetti in gioco. Per questa ragione il testo e la ricerca svolta da Fava si è articolata seguendo di volta in volta l’immagine che i media e i discorsi politici restituiscono del quartiere, i discorsi degli operatori del Progetto Zen a proposito dei problemi dell’utenza e delle prassi di intervento, infine le rappresentazioni degli abitanti del quartiere. Nonostante le profonde differenze tra questi tre attori, la ricerca mette in evidenza come la presenza di una “frontiera” tra il quartiere e la città venga data per assodata e come ognuno dei personaggi e dei testi ripercorsi in questo libro si trovi di fronte alla necessità di confrontarsi con questo margine, articolandolo in modi spesso diversi l’uno dall’altro, decostruendo anche gli stereotipi che costruiscono il concetto di “periferia”, e di svelare i meccanismi che portano a definire un luogo come “altro” o meglio “escluso” dal resto della città. L’idea di fondo è che un luogo non sia periferico perché oggettivamente definibile come tale, ma lo diventi perché inteso come al margine nelle rappresentazioni degli attori che a questo fanno riferimento.

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Foto di Elizabeth Zenteno

Il libro si articola in quattro capitoli più le conclusioni. Nel primo capitolo l’autore svolge una rassegna ragionata della letteratura sia di settore che generalista che attorno allo ZEN ci fosse l’aura di un quartiere “ghetto”: distante, differenziato e segregato e con un impatto altamente stigmatizzante, che pone inevitabilmente la necessità per chiunque vi abbia a che fare, soprattutto per i residenti, di fare i conti con queste rappresentazioni. Per questi ultimi l’effetto di ghettizzazione percepito determina l’esigenza di reagire, o negando questa presunta alterità, fatta di carenze igieniche e abitative, degrado sociale e microcriminalità, o denunciando la gravità della situazione. Il secondo capitolo svolge una funzione di preparazione alla lettura dei successivi due poiché esplicita le modalità attraverso cui è stata portata avanti l’inchiesta e i principi metodologici che l’hanno guidata. A inizio del capitolo l’autore spiega la fondamentale differenza tra partecipazione e implicazione del ricercatore all’interno del campo di ricerca, sottolineando l’importanza di riflettere sul processo di implicazione del ricercatore all’interno del campo di ricerca. Il presentarsi come ricercatore, come soggetto “altro” rispetto alla quotidianità della realtà osservata permette l’emergere di relazioni con i soggetti protagonisti dell’inchiesta che dicono molto sulle rappresentazioni e immaginari che li caratterizzano. La ricerca svolta da Fava è stata quindi svolta attraverso una continua riflessione sul processo di implicazione e sugli elementi emersi nel corso di diversi momenti di incontro con la realtà studiata: gli scambi quotidiani e i racconti a orientamento biografico. 

Il terzo capitolo si occupa di analizzare le rappresentazioni che dello Zen hanno gli operatori impegnati nel quartiere e in particolare quelli coinvolti nel Progetto Zen del 1993, il cui obiettivo era quello di ridurre il rischio del coinvolgimento dei minori in attività criminose. In primo luogo, l’autore si preoccupa di individuare attraverso la lettura del documento di progetto le rappresentazioni del quartiere alla base del progetto, che risultano però essere del tutto conformi all’immaginario evocato dai media e messo in evidenza nel primo capitolo. Anche in questo caso l’immagine dello Zen che emerge è quella di quartiere altamente problematico sia dal punto di vista sociale che abitativo. All’origine della situazione di disagio sociale sembra collocarsi la famiglia “multiproblematica” caratterizzata dallo scarso livello educativo, dalla cultura dell’arrangiarsi, dalla quotidiana ricerca di espedienti, dall’assenza di senso del futuro. A renderla problematica è inoltre la scarsità di risorse economiche e il degrado dello spazio urbano vissuto (assenza di spazi pubblici, abitazioni in cattive condizioni, presenza di rifiuti per strada). I racconti a sfondo biografico degli operatori coinvolti nel progetto non fanno poi che confermare queste riflessioni e riportare una conoscenza del quartiere stereotipata, poco problematizzata ed estremamente conforme alle rappresentazioni veicolate dai media. Per ciascuno dei resoconti degli operatori l’autore mette in correlazione le vicende biografiche e di carriera con le rappresentazioni che essi hanno dello Zen. Viene così svelato il meccanismo secondo cui questi tendono ad interpretare il quartiere e i suoi problemi a partire dalla proiezione su di esso di categorie derivanti dal loro background culturale. Il capitolo offre così una riflessione sulle pratiche di intervento che spesso risultano inefficaci poiché la possibilità di apportare un cambiamento si scontra con la conseguente necessità di modificare l’impalcatura simbolica della rappresentazione dominante (improntata su una rappresentazione passiva degli abitanti) su cui si fonda e che giustifica il Progetto Zen. Il quarto capitolo sposta l’attenzione sugli abitanti del quartiere, rivelandone storie e caratteristiche del tutto diverse rispetto alle rappresentazioni emerse nel corso dei primi capitoli. I resoconti riportati restituiscono la varietà e multidimensionalità delle storie degli abitanti che in tutte le loro vicende dimostrano grande resilienza e capacità di gestire e far fronte alle difficoltà succedutesi nel corso della loro vita. All’interno di ogni racconto, viene sottolineata l’esigenza degli intervistati di confrontarsi con lo stigma esistente rispetto al quartiere e di prendere le distanze rispetto all’idea di marginalità che nei discorsi pubblici viene attribuita ai suoi abitanti. Nelle conclusioni l’autore torna a sottolineare l’importanza dell’implicazione del suo stesso ruolo di ricercatore all’interno del quartiere e di come solo in questo modo sia stato possibile per lui conoscere e quindi svelare i meccanismi di costruzione di una visione stigmatizzata del quartiere e allo stesso tempo, ascoltando i residenti, di costruire un racconto nuovo dello Zen.

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Foto di Elizabeth Zenteno

In conclusione la metodologia di adottata da Fava propone chiavi di lettura particolarmente interessanti per lo studio delle periferie urbane: l’attenzione sul processo di implicazione di soggetti “altri” rispetto alla quotidianità della realtà osservata pone sicuramente delle questioni piuttosto complesse soprattutto per quanto riguarda le possibilità di accesso al campo di ricerca e alle relazioni con i soggetti coinvolti nell’inchiesta. Infine il libro lascia  aperti degli interrogativi di particolare importanza per chi si approccia alla ricerca con l’intento di apportare un cambiamento nel contesto analizzato. Se il libro permette di decostruire alcune rappresentazioni cristallizzate e poco problematizzare attraverso cui viene letto il territorio e realizzati gli interventi, poco viene detto su come trasformare questo nuovo racconto del quartiere in nuove prassi di intervento. Rimangono dunque da definire le modalità o categorie attraverso cui leggere gli aspetti problematici di un quartiere e le relative strategie di intervento, cercando di resistere al tentativo di proiettare sui suoi abitanti categorie imposte dall’alto o provenienti dal nostro vissuto.

“Il mio testo non sarebbe nulla se i miei interlocutori non mi avessero rivolto la parola. Questa mi autorizza a parlare perché mi permette prima di tutto di darle risposta. Rappresentare questa parola è allora il nodo centrale, a un tempo redazionale, epistemologico e politico. ”

Ferdinando Fava

Titolo: Lo ZEN di Palermo: antropologia dell’esclusione; autore: Ferdinando Fava; casa editrice: Franco Angeli, 2008.

 

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